Gang Of Ducks è il collettivo che sta ridisegnando il volto dell'Italian New Wave, ripristinando una connessione spesso perduta tra la musica e le altre arti. Perché in fondo un disco non può essere un progetto editoriale? Che differenza c'è tra il lavorare con i suoni e con le immagini? Disegnare delle copertine o fare un set? In Gang Of Ducks c'è questo e molto altro. Non si tratta semplicemente del DIY delle origini, quanto piuttosto di un'attitudine alla multidisciplinarietà che scaturisce come una mutazione genetica indotta dal digitale. I GOD sono lo specchio di un'era che non riconosce più i confini, dove il concetto di territorialità è andato in crisi e dove la musica viaggia più libera che mai...
Esiste una relazione tra le città in cui avete abitato e la nascita di Gang Of Ducks?
C'è sicuramente Torino nella storia di Gang, sia come città in cui siamo cresciuti sia come luogo fisico dove è nata l'idea. Poi c'è stato il trasferimento a Berlino di alcuni di noi e dalla crew ha preso forma l'etichetta. Non sono però le due città a rappresentare Gang. Non c'è un concetto di radicamento territoriale così forte. I terminal degli aeroporti e le autostrade che ci hanno portato da una parte all'altra; come viaggia oggi l'informazione e un certo cambiamento nelle modalità di produzione e consumo della musica, possono invece essere molto più efficaci per comprendere l'identità della label e il pensiero che l'ha generata.
La de-territorializzazione può ispirare molto. Però io credo anche nella fisicità delle esperienze. Torino e la sua scena che cosa vi hanno lasciato?
Siamo cresciuti a Torino nei duemila, in un contesto in cui la scena musicale urbana si stava spostando dai rave fuori città ai Murazzi, un luogo dove la musica ha preso una connotazione più edonistica e più orientata al dance floor. Di quella scena abbiamo vissuto tutto: dalla varietà dei suoni e delle persone, alla sua crisi. Quando i locali, dove avevamo ballato e fatto serate per molto tempo, hanno cominciato a chiudere, siamo diventati più introspettivi e lo studio si è trasformato nella nostra nuova casa.
Gli anni coincidono più o meno con Berlino. Giusto?
Sì, Berlino in questa evoluzione ha giocato un ruolo fondamentale. Da un lato ci ha permesso di conoscere meglio l'industria musicale, dall'altro ci ha dato la possibilità di vedere la musica elettronica sotto una luce diversa; spesso più legata alla dimensione dell'ascolto che a quella del ballo.
Oltre alla cultura techno, noto una forte presenza del punk nelle vostre produzioni. È così?
Come attitudine, per noi techno e punk sono molto simili. Siamo sempre stati istintivi e DIY. Dalle copertine fatte in xilografia a quelle disegnate con le tag, alla scelta degli artisti. Sin dall'inizio abbiamo cercato di esprimerci in maniera multidisciplinare, non facendo semplicemente la record label. Sicuramente ci interessa mescolare influenze e competenze molto diverse. Da un punto di vista musicale, significa contaminare la techno con altri linguaggi e suggestioni, anche più spirituali, lavorando sulla sua variazione. Il processo però è molto libero. Non ci sediamo a tavolino alla ricerca di un suono specifico, non scegliamo il suono sporco perché ci riconosciamo in un'attitudine punk. Crediamo che l'imperfezione sia un concetto che può evolvere. Anche far suonare un pezzo molto freddo, scegliere il digitale, con tutte le sue anomalie e flessioni, può considerarsi una distorsione.
Che cosa ne pensate del mercato musicale e dei suoi trend?
Il rapporto con i trend è sempre molto difficile. Quando produciamo, ci chiediamo più volte se quello che stiamo facendo ci rappresenta realmente. C'è qualcosa di schizofrenico in questo guardare contemporaneamente dentro e fuori, cercando di non ricadere in bolle di mercato o fenomeni di moda.
E con i musicisti? Siete voi che scegliete loro o sono loro che scelgono voi?
Da subito abbiamo prestato particolare attenzione alla scena italiana. Con noi sono usciti Vaghe Stelle, Dave Saved, Sabla, Haf Haf e XIII. Ma la nostra vocazione è guardarci intorno e non solo in Europa. New York, Detroit, Berlino, Londra abbiamo spaziato in tutte queste città, pubblicando materiale di artisti come ITAL, MPSF, Traag, Sudden Infant, S.Olbricht, per citarne alcuni. Quando troviamo qualcosa di interessante e che ci piace cerchiamo di pubblicarlo, ma non abbiamo un modus operandi definito. A volte veniamo contattati, altre, lo facciamo noi.
Oltre alla label siete anche voi artisti. Come riuscite a mantenere distinte le due identità?
Il cortocircuito è sempre dietro l'angolo, ma è in quel momento che nascono le cose più belle. La label non è una persona fisica, è un'idea. E' come cambiare il chip nella nostra testa, switchando da noi a lei.
Quali sono le vostre references musicali?
La maggior parte delle ispirazioni viene dal passato, da scenari spesso morti. Ma non in senso nostalgico. Buona parte del suono della label è una techno che oltrepassa sé stessa, che non fa neanche più ballare. È come un ricordo sfocato di quando andavi alle feste. Una musica che senti da lontano, che trattieni nella mente in maniera confusa, perdendo dei pezzi. O aggiungendone altri. Alcuni elementi erano di troppo, altri li hai sostituiti con cose che ti piacevano di più. Nelle references di Gang c'è molto delle nostre esperienze personali, dei nostri ascolti, di quando andavamo a ballare e cercavamo di cogliere il principio narrativo del set. Il nostro obiettivo non è martellare le persone ma comunicare delle emozioni e raggiungere un livello di empatia quasi archetipale.
Come sarà il 2016 di Gang of Ducks?
Abbiamo in cantiere nuovi progetti, questa volta editoriali, pensati però come un'uscita discografica. Vogliamo affidare ogni numero a un artista diverso, che sia anche il curatore. Proprio come se stesse facendo il suo disco. Alla normale attività dell'etichetta si aggiungeranno poi una serie di one night itineranti.
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L'articolo Gang of Ducks - La techno che verrà di carlotta.petracci è apparso su Rockit.it il 2016-01-18 10:19:00
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